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Le sfumature del deserto

“Spesso capita che mi si svelino misteri più intriganti di qualsiasi lucido pensiero, ad esempio come, frequentando un luogo che di umanità ne vede poca o affatto, si cominci a intuire il senso ultimo dell’essere umani.”

Ellen Meloy, The Last Cheater’s Waltz

Un viaggio di ricerca e di scoperta, di misteri svelati o resi ancor più impenetrabili, di motel sprovvisti di piscine, di polvere, di tradizioni, di colori. È impresa ardua definire Antropologia del turchese, raccolta di saggi di Ellen Meloy, scrittrice naturalista nata e cresciuta in California e finalista al Pulitzer nel 2003 proprio con questo libro. Lo è perché, come tutte le opere d’ingegno non convenzionali, rappresenta un ampio bacino di informazioni e sensazioni a cui attingere con cautela.

Nel 2007, le sale cinematografiche italiane hanno visto l’uscita di “Into the Wild”, il film, diretto da Sean Penn, che racconta la vita (meglio, le scelte di vita) di Christopher McCandless, giovane borghese che abbandona tutto per un viaggio a dir poco avventuroso attraverso gli Stati Uniti d’America. Tra i molti pregi della pellicola, c’è sicuramente quello di aver fatto conoscere al pubblico italiano Henry David Thoreau, figura, invece, fondamentale ed estremamente rappresentativa per gli americani. È proprio Thoreau, infatti, che traccia la strada per una disobbedienza civile che consentirà poi, tra le altre cose, di proteggere alcune riserve naturali americane e di riscoprire un rapporto ancestrale con la natura perché, come si legge nel suo Walking, “Dalla natura selvaggia dipende la sopravvivenza del mondo”.

ph. by Hasan Almasi on Unsplash

È tangibile la circostanza che la Meloy si sia intimamente ispirata e identificata in parte di questo pensiero, e che l’abbia fatto suo. Lo immaginiamo perché la sua scelta della solitudine, mitigata solo, talvolta, dalla presenza del marito Mark oppure di personaggi incontrati lungo il cammino, è scelta fondamentale per l’essenza profonda di un viaggio che è, prima di ogni cosa, spirituale e prepotente.

In Antropologia del turchese le informazioni si ammassano l’una sull’altra, una roccia granitica che svetta nel deserto e a cui possiamo attingere ogni volta che sorge un dubbio su ciò che stiamo affrontando. Kandinskij, Plinio il Vecchio, Shakespeare, Ezra Pound, Goethe: tanti grandi compongono un mosaico che pesca in tante vasche fatte di storia, filosofia, scienza e naturalismo, per restituirci la grandezza di un mondo a colori. Un manuale di sopravvivenza che aiuta a perdere la bussola, lungo strade che non vanno domate ma da cui bisogna farsi, soltanto, trasportare. L’autrice non aspetta che accada qualcosa per poi raccontarla, ma cerca di rendere ogni aspetto del momento degno di essere riportato su carta: così scopriamo piante, animali, identità prima sconosciute, sensazioni notturne e cicatrici diurne.

“Proprio come le mappe, il punto focale di un certo luogo riunisce terra, cielo ed esperienza umana. È un’istantanea di viaggio.” E di istantanee questo libro ne regala molte, scattate lungo il fiume Colorado, nel deserto del Mojave, sulla costa dello Yucatan, camminando su un binario immaginario che collega soltanto attimi di vita. Per qualcuno che su parte di quelle strade ha camminato, come la sottoscritta, leggere Antropologia del turchese ha una doppia valenza, di ricordo e di scoperta. Per chi non ha mai avuto la fortuna di farsi avvolgere dalla polvere rossa del deserto dell’Ovest, leggerlo saprà essere spinta sovrumana e materia spessa di itinerario di viaggio.

I colori del deserto sublimano nella pietra turchese che a prima vista sembra messa da parte a favore di altri racconti ma che, invece, torna con prepotenza a insinuarsi, come acqua tra rocce millenarie. Una pietra che è, prima di ogni altra cosa, colore che attraversa popoli e civiltà perdute, mantenendole in vita. Un colore dalle tante sfumature, che si fa materia nell’analisi del rapporto quasi affettivo dell’autrice con le piscine, con l’acqua che contengono e con i muri che le ospitano e che di turchese sono rivestiti.

Una volta entrati nel mondo fitto e trascendentale di Ellen Meloy, grazie anche alla traduzione e alla prefazione di Sara Reggiani (compito tutt’altro che semplice eseguito con grande maestria), ci si ritrova come incagliati in una trama di maglie ben composte, ma comunque insufficienti per descrivere la materia. Certamente non per incapacità o incuria di chi scrive, ma solo ed esclusivamente perché la creazione di una natura così selvaggia, indomabile e imperscrutabile non si può rendere in altro modo se non attraversandola con corpo e spirito. Senza paura, proprio come ha fatto Ellen per tutta la vita, fino alla fine.

Cover – Horseshoe Bend, Page, Arizona, Colorado river | ph. by Des Récits on Unsplash

Ellen Meloy
Antropologia del turchese.
Riflessioni su deserto, mare, pietra e cielo.
Traduzione e prefazione: Sara Reggiani
pagine: 356 .
Data Pubblicazione: 2020
Edizioni Black Coffee

Laura Carrozza
LAURA CARROZZA

Copywriter e digital strategist per lavoro, copywriter e digital strategist per passione. Con una valigia sempre troppo piena e un vinile per ogni momento, amo scegliere con cura e vivere senza cautela. Sognare molto, viaggiare tanto, leggere ancora.