Renato Minore, presenza discreta ma continua e influente nel mondo culturale, racconta la sua esperienza esistenziale, dalla docenza universitaria a Roma dove gli capitò di fare esami a Barbara Balzarani (che non si sapeva chi fosse) e a Nanni Moretti (che era già il Moretti in pista di lancio con Ecce Bombo), alla conduzione di trasmissioni radiofoniche RAI, alla direzione della pagina culturale de Il Messaggero, ai suoi libri su Leopardi, Rimbaud, ai romanzi, alla sua poesia (l’anno scorso ha vinto il Viareggio, quest’anno è uscita la raccolta Ogni cosa è in prestito) e infine al suo sodalizio con la moglie Francesca, con cui condivide la prossima uscita di un racconto biografico che svela e illumina la figura di Flaiano nei suoi caleidoscopici aspetti.
Parlaci dell’esperienza di docente di Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università di Roma, il tuo rapporto con l’istituzione, con gli studenti, e il tuo confronto con il pensiero di McLuhan e di Umberto Eco.
Che dirti? In quegli anni di seminari e poi di insegnamento dentro una sigla davvero molto nuova per l’Università (la teoria e la tecnica dei mass-media), a me capitò di far lezione ed esami a Barbara Balzarani (che non si sapeva chi fosse) e a Nanni Moretti (che era già il Moretti in pista di lancio con Ecce Bombo). C’era una richiesta molto ampia e magari indifferenziata da parte degli studenti più di pratica che di teoria su quei mezzi (cinema, televisione, la radio che stava vivendo con le libere il suo momento di esplosione): ed io, che un po’ di pratica radio e televisiva la facevo in forme non proprio regolari, sentivo la necessità di rinforzare la teoria che in quegli anni furoreggiava con i vari spaccati semiologici, sociologici, linguistici. Studiai molto e, dentro questo nuovo alveo, riconvertii le mie precedenti competenze storiche letterarie, una laurea con Natalino Sapegno e molti studi settoriali soprattutto sul primo Novecento letterario testimoniati dalla mia tesi di laurea pubblicata poi dalla Nuova Italia. Feci seminari e corsi ripercorrendo per exempla i modi con cui i media (anche la pubblicità anche il romanzo d’appendice anche lo sceneggiato televisivo) erano stati variamente censiti e valutati dallo sguardo critico. Era un po’ entrare nei gangli, nei modi di funzionamento, della cosiddetta società di massa, di cui si parlava e si sparlava molto. Scrivevo saggi sulla utilizzazione televisiva del repertorio teatrale e sulla morfologia e la struttura del settimanale italiano. Ma nei seminari cercavo anche qualche esperienza diretta, un po’ di pratica: ne feci uno sugli scrittori sceneggiatori in cui vennero anche Moravia, Bassani e Pirro. Oggi è routine questa mescolanza, allora una novità guardata accademicamente con qualche sospetto. Ma io non sono mai stato un animale accademico e poi, con gli anni, anche per un certo nomadismo intellettuale che mi ha distinto, ho come riciclato questa complessiva esperienza nel lavoro culturale e giornalistico. Quella possibile grazie alla postazione d’eccellenza di un grande quotidiano come “Il Messaggero”, quella in cui più fortemente mi sono identificato, seguendo le occasioni, le verifiche, l’aggiornamento continuo che permetteva, attraverso una presenza sul campo. Un osservatorio molto ravvicinato, quasi millimetrico di attenzione e di valutazione.
Scrivevo saggi sulla utilizzazione televisiva del repertorio teatrale e sulla morfologia e la struttura del settimanale italiano. Ma nei seminari cercavo anche qualche esperienza diretta, un po’ di pratica: ne feci uno sugli scrittori sceneggiatori in cui vennero anche Moravia, Bassani e Pirro. Oggi è routine questa mescolanza, allora una novità guardata accademicamente con qualche sospetto.
Renato Minore
Quella invece alla Rai?
Con la radio ho avuto un rapporto continuo di collaborazione negli anni Ottanta, Novanta. Fino ai primi del Duemila. Trasmissioni dedicate ai libri, alla divulgazione culturale (ne ricordo una soprattutto, che poi divenne anche un disco ormai introvabile, in cui feci conversare per una quindicina di puntate tutti i poeti che poi sono diventati i nuovi protagonisti della poesia italiana: Conte, Cucchi Magrelli). Trasmissioni di grossa audience mattutina, come I giorni in cui feci l’esperienza di condividere giorno per giorno la mia vita di padre, era appena nato mio figlio Alessandro: i suoi pianti, il suo primo sorriso… Un racconto che coinvolse molto: conservo qualche centinaio di lettere di commento alla mia esperienza. Parlavano i padri e le madri, mi raccontavano la gioia e la fatica dei loro giorni che tanto somigliavano ai miei. Una sorta di epistolario collettivo e, quando ne rileggo qualche riga, rivivo l’emozione profonda provata quando Ale ci regalava quel suo improvviso e straordinario sorriso, una vera piccola rivelazione del suo essere, delle sue prime emozioni. La radio aveva condiviso quelle sue prime minime gioie o quell’istintivo reagire al volto di sua madre o di suo padre.
E ne ricordo un’altra, Il discofilo: per alcuni mesi presentai le mie musiche del cuore e commentai in fieri la nascita del fenomeno Paolo Conte. Scrivevo testi un po’ barthesiani di accompagnamento sull’aura, i media, il divismo. Un piccolo breviario di santità dissacrate o di dissacrazione santificata. Qualcosa è poi rifluita nel mio libro di saggi “Intellettuali mass-media società” e ancora, sul passo più allungato del racconto, nel mio romanzo “Il domino del cuore”. Che dei miei testi narrativi è quello che ha avuto meno tirature (il Leopardi è stato un piccolo best seller e poi un long-seller grazie alle molte nuove edizioni e ristampe, una quarantina; il Rimbaud, con il Campiello, le ristampe, la nuova edizione ha retto bene il confronto con il mercato della narrativa italiana), ma anche quello a cui forse più tengo. Anche perché mi sembra scritto in una forma che, nella sua scansione molto rigorosamente inseguita. ha come bisogno di una minima ridefinizione, di una postilla, non so. La medito da tempo e spero di trovare l’occasione (la voglia concreta) di entrare davvero ancora nel libro attraverso questa fessura, questa “apertura”.
Sei stato e sei ancora critico letterario de “Messaggero”, di cui sei stato inviato culturale, e responsabile della pagina culturale e di quella dei libri.
La pagina culturale di un giornale, la cosiddetta terza che non era più la terza, rappresentava obbiettivamente un piccolo osservatorio sul mondo della cultura o della società tout court. Ho vissuto sulla mia pelle la profonda trasformazione che in quegli anni subiva la terza: non più deposito di belle scritture, non più elzeviristica, un po’ lontana come un pianeta remoto, ma aperta a tutti gli spifferi della società e del costume. Si parlava di vecchi e nuovi scrittori, ma si parlava anche di televisione e magari di fumetti, si intervistavano anche personaggi dello spettacolo (Moravia lo fece con la Cardinale), si creavano discussioni e polemiche. C’era sempre il problema di un resettamento: non buttare via la antica e talora fin troppo aurea tradizione, ma nello stesso tempo aggiornarne la sua valenza, la sua potenza di fuoco. Un lavoro giorno dopo giorno in cui il tempo più lungo delle scelte di fondo doveva convivere con la pressione quotidiana. L’ho fatto per molti anni, sia come responsabile sia soprattutto come “inviato” e critico della pagina conversando con moltissimi dei grandi scrittori contemporanei, seguendo il dibattito culturale attraverso i premi, i convegni, le fiere del libro italiane e straniere, le recensioni. Un lavoro che mi ha insegnato ad adeguare sempre il tempo breve della “performance” (l’intervista, la recensione, anche la cronaca culturale) con il tempo più lungo della discussione, dell’approfondimento, della nuova valutazione, della vera acquisizione. Nonostante le dispersioni, gli abbagli, la casualità di molte occasioni, credo che questo vivere in mezzo alle cose della cultura (diciamo così grossolanamente) ha di molto rafforzato per così dire la mia identità di scrittore e anche di poeta.
La tua scrittura. La narrativa: Leopardi e Rimbaud…
Aggiungerei Il dominio del cuore, di cui ho già parlato, il mio terzo tempo narrativo, il romanzo romanzo dopo Leopardi e Rimbaud, il romanzo di una vita e l’impossibile romanzo per inseguire una vita che fugge da ogni parte. Raccontare ma non frontalmente la vita di Giacomo e di Arthur. La scommessa era proprio lì: fare un racconto che non fosse biografia larga o stretta che fosse, che senza l’arbitrio di una citazione fuori contesto, rimettesse tutto nel solo ordine possibile: quello che immagina e trasforma l’immagine di un adolescente infelice che assimila ogni sapere e sogna la luna bellissima e lontana nel cielo che piove dal cielo l’inconsistente tondello che si spegne sul prato come un carbone ardente immerso in una bacinella d’acqua. E così il giovane alle prese con una Roma di ciarle e potere che lo respinge, l’amante sognante e disilluso che ragiona sulla natura ineffabile di quel sentimento che chiamiamo amore, o il poeta che s’aggira tra i fantasmi di una città di ammalati e untori, con sulla bocca l’invito ad una sorta di solidarietà degli umani contro la cieca violenza della natura. E poi Rimbaud: il viaggio simbolico e reale intorno al suo mito, alla sua inesauribile leggenda per estrarne qualche briciola di conoscenza e di verità per accostarci davvero a lui. Forse non esiste altro esempio di poeta così perfetto, sicuro e autorevole con un esordio tanto folgorante che poi scivola nel vuoto assoluto. Un poeta che si fa anche carico di una funzione sociale e sacrale i cui versi vogliono avere un timbro profetico, salvifico. Ma dicevo del Dominio del cuore: un affresco narrativo che porta in un universo di simulazione e di virtualità che quasi anticipa, senza saperlo (il romanzo è del ‘96) la nostra attuale condizione in cui i nostri tanti avatar elettronici vivono e soffrono per noi. E tutto intorno alla storia, anzi la cronistoria di un film televisivo che vuole ricostruire la vita di uno scrittore che sembra proprio Ennio Flaiano, con l’intelligenza, l’arguzia, il dolore che attraversò la sua vita. Ecco in questo caso proprio lo studio sulla comunicazione e i suoi effetti fatti ai tempi del lavoro universitario mi sono stati molti utili nella costruzione di personaggi e situazioni.
Come poeta, hai conseguito i maggiori riconoscimenti. Come è il tuo approccio nella scrittura poetica, che cosa la differenzia da quella saggistica o narrativa?
La poesia è come un filo forse non al massimo visibile ma potente e davvero indistruttibile che ha attraversato tutti i miei anni. Ma non con quel protagonismo da poeta che è di tanti poeti veri o anche fasulli, quella voce da poeta che spesso è fastidiosa, una maschera costruita sulla retorica della parola assoluta, che abbaglia e illumina. Quella per cui si pensa che in qualche modo tutti abbiamo un’anima poetica, si tratta solo di ritrovarla per una specie di tenerezza da fanciullino pascoliano. È una specie di talento anche naturale che va coltivato con pazienza, con lo studio, con la perseveranza, con l’umiltà di sapere (come con modi diversi mi suggerivano Edoardo Sanguineti e Andrea Zanzotto) che ogni nuova poesia in fondo si corregge con un’altra. E se avessi scritto una poesia giudicata completamente soddisfacente, probabilmente avrei smesso di scrivere versi.
Che cosa è mutato nella società, nel mondo culturale, tanto da poter affermare che oggi non esiste più un pubblico della poesia, in Italia?
Non sarei così catastrofico. La poesia è stato sempre uno spazio ridotto, per pochi o comunque non per masse che la leggevano e ne sentivano i beati effluvi ricantandola magari a memoria. Ricordo sempre lo stupore che mi destarono le parole di Vittorio Sereni, a quel tempo grande timoniere alla Mondadori e nocchiero dello Specchio: la Beltà di Andrea Zanzotto, un libro così importante, un libro che è anche una sorta di spartiacque nella poesia italiana del secondo Novecento, aveva venduto 350 copie; e quando andai a Pieve di Soligo a visitare il grande poeta, trovai nella libreria del paese i best seller Mondadori, ma non una sola copia di un suo qualsiasi libro. È vero: è aumentato in modo sterminato il numero degli scriventi poesia, traboccano i blog, le mille postazioni on-line, si premia e si premicchia con grande facilità. E troppi pensano che, spezzando un pensierino d’amore si fa una poesia d’amore in cinque o dieci versi. Che mettendo un boom strategico a metà di un pastoncino sui casi bellici tra Ucraina e Russia, si manda un potente messaggio politico e pacifista in versi destinati al mondo intero, e invece sono pensierini diretti ai venti clic che si ottengono come ricompensa. Pensierini assai “pensosi” che aspirano alla felicità, al dolore, alla totalità. Mi è capitato in versi di scherzare su questa tipologia di poeta: “E il poetino raccontava/ d’ansia e meraviglia, /in ogni canto si cela/ la sirena e il pigolio/ sui tetti è vita/ che s’aggiunge a vita”. Ma la poesia circola anche in modo diverso, gli editori che pubblicano (soprattutto piccoli) anche buoni libri contemporanei, classici, il nostro Novecento, ci sono e resistono e chi è minimamente educato a distinguere, può distinguere e scegliere. Certo, tutto circola in questo gran marasma che mescola ogni cosa, occorre saper navigare e non fantasticare che un libro di Bertolucci o di Amelia Rosselli possa vendere come “Cambiare l’acqua ai fiori” di Valerie Perrin.
Qual è il tuo atteggiamento nei confronti della realtà odierna, in cui la specie umana è incapace di avvertire i messaggi che le vengono dai cambiamenti climatici, dall’inquinamento del pianeta, dalle epidemie?
Cosa ti dico di non banale e di non apocalittico, come posso rispecchiare il sentimento che provo nel momento in cui leggo, scandisco la domanda? Per una volta lascio la parola al poeta di “Ogni cosa è in prestito”, con alcuni versi che possono forse non eludere una domanda così dilaniante.
E mi assicurano che sono
come tutti un bellissimo glitch
nel grande software dell’universo
e non l’app di maggior successo
come forse m’illudevo
nei picchi di megalomania.
E così dovrò essere sempre
più responsabile nei confronti
della storia che scrivo
e della natura di cui
dovrò prendermi cura.
E poi viene la voglia
di raccontare e capire quel che vedi.
Il runner con la sporta che traballa
controlla il tempo del suo misero prezzo,
chiede euro davanti alla vetrina
il marocchino e con sgarbo
è allontanato, la cassiera
un po’ s’allieta perché la macchinetta
ora l’aiuta a raccogliere il resto
per le monete, e quel piatto fungino
lo immagini come il segno divelto
dall’internet del bosco dove le piante
ancora parlottano tra loro e creano
la sotterranea rete sociale,
là dove c’è chi ascolta
il respiro della nascita dell’universo
il vento delle particelle oscure
che attraversano i corpi senza ferirli
mentre tra un pause e un play
su Instagram l’ucraina Dasha
mostra al volante il suo ultimo respiro.

Se dovessi fuggire in un’isola deserta, in quale luogo vorresti ritirarti e che cosa porteresti con te? Quali libri, film, musiche, oggetti?
Sceglierei dall’“Atlante delle isole remote” di Judith Schalansky, un libro affascinante come pochi. Vediamo: la più famosa delle isole remote è forse Sant’Elena dove approdò l’Imperatore che l’Europa aveva voluto tenere al largo dal continente. O quella di Pasqua, con l’enigma dei suoi “mammozzi”, caso paradigmatico della (futura) fine del mondo, una catena di circostanze sfortunate verso l’autodistruzione, un lemming nell’Oceano Pacifico. Ma da Tristan da Cuña all’atollo di Clipperton a Toule meridionale, sono cinquanta i lembi sperduti circondati dalle acque, lontano da tutto e tutti, di cui Shalandsky racconta storie misteriose e bizzarre, con animali rari, schiavi naufraghi, folli guardiani del faro. Viaggi davvero avventurosi, con il dito sulla carta, senza gli zoom di Google Earth.
Ecco in una di queste isole, magari scelta a sorte perché ognuna ha la sua segreta magia, porterei due soli libri. L’uomo senza qualità di Musil e lo Zibaldone di Leopardi, da leggere e rileggere da qui all’eternità. Aggiungerei forse, se il numero fosse più elastico, Pinocchio di Collodi che ad ogni rilettura torna nuovo, misterioso, con un po’ di bontà posticcia e una perfidia davvero inquietante di fronte alle peripezie di un viaggio e di una metamorfosi. Tra i dischi andrei sul classico: il Chiaro di Luna di Beethoven, l’Ottava di Mahler, il Bolero di Ravel. Si può aggiungere la raccolta completa delle canzoni di Paolo Conte? Per i film mi accontenterei della racconta completa dei film di Buster Keaton compreso l’ultimo, “Film”, lo straordinario omaggio beckettiano. Aggiungerei “La dolce vita” e qualcosa di molto “personale”: il documentario televisivo di Ennio Flaiano “Oceano Canada”. Il ricordo di un caro amico, di uno scrittore davvero grande anche quando passeggia per le strade di Toronto o getta gli appunti del suo diario alle cascate del Niagara. E una foto soltanto, quella di me neonato in carrozzina con accanto mia madre e mio padre, nella villa comunale di Chieti. È l’inizio di tutto e si può finire con essa.
Parlaci della persona straordinaria e colta che vive al tuo fianco, Francesca…
Che dirti? Abbiamo deciso di scrivere un libro insieme. La vita, i libri, il dolore e qualcosa d’altro di chi, in modo diverso, nel tempo ci è stato molto vicino, fraternamente accanto. Dico Ennio Flaiano la cui storia (e non solo) è un racconto in uscita da Mondadori “Ennio l’alieno – I giorni di Ennio Flaiano”. Senza di lei non l’avrei scritto, dopo averlo a lungo pensato. Senza di me, lei non ci avrebbe pensato, ma sicuramente l’idea di scriverlo le apparteneva, pur non avendone coscienza.
Questi versi “Vento e filo d’amore” sono dedicati a lei.
Dovrai starci per sempre.
Ti ho serrato nel mio cuore,
ho perduto la chiave
e devi accordarti
in quel tremore ignoto al mondo,
cosa piena di paura,
dove creammo parole molte d’amore
e lasciammo non dette
parole molte d’amore.
Ti ho serrato nel mio cuore
e la chiave hai finto di averla
per meglio occultarla.
Sei il coltello con cui ancora
frugo nella mia piaga.
cover ph. © Dino Ignani

Renato Minore
Nato a Chieti, vive a Roma. Si è laureato con Natalino Sapegno e si è specializzato in filologia moderna. Giornalista professionista dal 1971 presso i servizi giornalistici della Rai, è critico letterario del Messaggero, di cui è stato inviato culturale e responsabile della pagina libri . Ha insegnato nel corso di perfezionamento in giornalismo alla Luiss di Roma, dopo aver insegnato Teoria e tecniche delle comunicazioni di massa all’Università di Roma. Come narratore ha pubblicato i romanzi Rimbaud (Mondadori), Il dominio del cuore (Mondadori), Leopardi, l’infanzia le città gli amori (Bompiani, secondo allo Strega del 1987).Come poeta ha pubblicato I nuovi giorni(Rebellato), La piuma e la biglia (Almanacco Lo specchio Mondadori), Non ne so più di prima (Edizione del Leone) Le bugie dei poeti (Scheiwiller), Nella notte impenetrabile I profitti del cuore (Scheiwiller), O caro pensiero (Aragno), Ogni cosa è in prestito (La Nave di Teseo). I suoi versi sono stati tradotti in più lingue. Ha scritto per settimanali come Il Mondo, quotidiani come la Repubblica, riviste culturali come Paragone. La sua attività critica è raccolta nei volumi: Giovanni Boine (La Nuova Italia, 1975), Intellettuali mass media società (Bulzoni 1976), Il gioco delle ombre (Sugarco 1986), Dopo Montale Incontri con i poeti italiani (Zerintya 1993), Poeti al telefono (Cosmopoli 1994), Amarcord Fellini (Cosmopoli, 1995), I moralismi del Novecento (Poligrafico dello Stato 1997), La promessa della notte (Donzelli 2011) e le serie: Sul telefonino: Il tam tam del terzo millennio (Cosmopoli 1996), Il mondo mobile (Cosmopoli 1997), La piazza universale (1998). Sul divismo: Fragili e immortali, Il divismo all’origine (Cosmopoli 1997), Lo schermo impuro: Il divismo tra cinema e società (Cosmopoli 1998), Il pianeta delle illusioni. Il divismo negli anni Sessanta (Cosmopoli 1999) Eroi virtuali: Il divismo alle soglie del duemila (Cosmopoli 1999). Sulla comunicazione: Futuro virtuale (Cosmopoli 1995), Rotte virtuali Rotte convergenti ((Cosmopoli 1996), 1997). Ha tradotto le poesie di Paul Verlaine e ha curato l’opera poetica di Kikuo Takano Il senso del cielo. Ha vinto vari premi: Selezione-Campiello, Estense, Buzzati, Flaiano, Capri, Viareggio-Repaci per la poesia, Città di Modena per la critica. È stato insignito dal Presidente Ciampi del titolo di Cavaliere della Repubblica.