fbpx

Pietre di pane. Intervista a Vito Teti

In Cristo si è fermato a Eboli Carlo Levi cattura un’immagine fortemente evocativa, registrata nei suoi anni di esilio in Lucania: due numi tutelari dominano le pareti delle stanze da letto di molti contadini: la Madonna di Viggiano da una parte, il Presidente Roosvelt dall’altra. Una forma di sincretismo, di “doppio antropologico”, che anima e attraversa anche le pagine di Pietre di pane di Vito Teti, uscito nella prima edizione tredici anni fa, ora riedito da Quodlibet. Uno snodo fondamentale per chi si interessa allo spopolamento dei paesi e alle aree interne. Un racconto che si intreccia alle vicende familiari di emigrazione dell’autore e all’analisi di due mondi lontani ma intimamente connessi: la Calabria da una parte, l’America (il Canada dove emigra il padre) dall’altra.
Comunità di origine che si ampliano e si riproducono nel Nuovo Mondo, complementari ma distinte. Una dialettica in cui si dispiega la dimensione e la complessità del restare. “Restare significa vivere l’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre “fuori luogo”. – scrive Teti –  Esiste lo sradicamento totale anche di colui che resta fermo”. Ne abbiamo parlato in questa intervista con l’autore.

Nell’introduzione alla nuova edizione di “Pietre di pane”, pubblicato in origine nel 2011, chiarisce bene il senso del termine “restanza”.  Come è maturato secondo lei questo concetto nei dieci anni che separano la pubblicazione di “Pietre di pane” nel 2011 dall’uscita del saggio “La restanza”, e come legge il fatto che in questi anni abbia alimentato un vasto dibattito emergendo con forza come tema narrativo?

Comincerei col dire che il problema del restare, di chi resta, in qualche modo appartiene alla mia esperienza individuale, infantile, se vuole.
I compagni di classe delle elementari che partivano per Toronto, io che restavo e mi sentivo quasi un superstite, qualcuno che restava qui con la speranza e l’illusione che un giorno ci saremmo ricongiunti. Mio padre era in Canada e mia madre restava in paese, allevava ed educava il figlio, era la situazione di tutte le madri.
Questo legame tra i due paesi, tra i due mondi, per me è stato sempre stretto o ineludibile perché anche Toronto, anche gli altri luoghi di emigrazione erano una sorta di estensione del mio paese. Con l’immaginazione, con gli scambi, con le lettere, con i continui ritorni. Per cui quando poi cominciai ad occuparmi di emigrazione, i due termini rimasti e partiti li misi subito in relazione, perché vedevo in questi due termini l’esternarsi, il manifestarsi di una medesima vicenda. Un luogo che esplodeva e le schegge di questo mondo esploso andavano in varie parti del mondo, alcune restavano in paese, alcune andavano a Toronto e così via.
Questo legame rimasti/partiti è stato molto intenso a partire dagli anni ’50 perché gli emigrati continuavano a tornare, i loro parenti poi rimasti andavano a visitarli, continuavano a verificarsi matrimoni tra quelli che erano partiti, e quelli che erano rimasti. I due paesi in qualche modo erano uniti.
Lo scrissi in un saggio dove, a una ricerca di uno storico americano, Robert Harney, che scrive degli uomini senza donne, delle prime migrazioni, quindi le condizioni di vita, la solitudine, la fatica, la mentalità, i comportamenti degli uomini che partivano senza donne e che spesso poi non tornavano, io, come dialogo con Harney, cominciai ad occuparmi di donne senza uomini, in attesa di uomini che tornavano. Qual era la loro vita, come era cambiata anche la loro mentalità, come si erano attrezzati per gestire una famiglia senza il capo famiglia, e quindi in qualche modo continuava a tenere uniti, nella loro separatezza, questi due termini. E arrivo all’inizio della domanda.

I paesi vuoti non hanno più le dinamiche e l'antropologia dei paesi tradizionali, sono diventati qualcosa di nuovo, e non vuol dire che i paesi non debbano cambiare. Ma quando cambiano sotto la spinta di un esodo quasi biblico, resta il problema che il vuoto si trasforma in una sorta di vuoto mentale, di vuoto psicologico.

Quando decisi di raccogliere un po’ di scritti sparsi qui e là, racconti, storie di vita, memorie, che avevano come filo conduttore l’emigrazione, la partenza, persone che vivevano tra il mondo d’origine e il mondo nuovo, questo andirivieni delle persone, questo sentirsi spaesati comunque nei due posti, alla fine era un libro sostanzialmente di storie di emigrati, anche se tornavano, anche se restavano molto legati al loro campanile, anche se si illudevano di riprodurre il paese nel luogo in cui erano andati. Però nel fare la preparazione a questo libro mi venne quasi naturale scrivere, riflettere sul fatto che queste persone sarebbero state altre se non ci fosse stato chi li aspettava. La loro vita sarebbe stata diversa in assenza di chi restava e per cui loro tornavano. Quindi diciamo che il restare mi appariva in qualche modo anche una sorta di viaggio mentale, immaginario, che apparteneva alle fantasie delle persone rimaste che sempre pensavano alla possibilità di partire.

Corrado Alvaro, che cito in molti libri e anche in questo, diceva che i calabresi, ma non solo i calabresi, in qualche modo partono anche quando restano dietro una scrivania seduti, in qualche modo partono anche quando restano dietro una scrivania seduti, mentre altri calabresi che partono, che vanno lontani, restano fermi con il loro immaginario, con i loro ricordi, con la loro nostalgia nel paese da cui sono partiti.
In questo saggio introduttivo della prima edizione di Pietre di pane allora io cominciavo a sostenere, anche a partire dal viaggio degli antropologi che dopo aver esplorato mondi lontani facevano questo giro di ritorno e tornavano nel loro mondo, perché oramai il diverso, l’altro, non era più in mondo lontano e altrove, ma stava arrivando da noi. Quindi nasceva un’etnologia dell’interno.
L’altro era qui da noi e noi in qualche modo ci misuravamo con gli altri. Un’alterità interna che a dir il vero appartiene anche a una tradizione demoantropologica precedente quando i domologi, gli studiosi del folklore studiavano l’alterità delle Indie interne, delle Indie di por acá, dei “selvaggi”, dei primitivi che vivevano nei loro luoghi consegnandoci una serie di etnografie, di canti, di racconti, di proverbi in cui gli altri erano le persone con cui vivevano, e di cui raccoglievano in maniera diversa, con esiti diversi, testimonianze, memorie orali, un’oralità diffusa, la poesia orale, le fiabe e così via.
E allora ecco che “restare” non lo caricavo più di una connotazione antica. La restanza non era più un rimasuglio, qualcosa che avanzava e che era quasi uno scarto. Ma lo scarto, quel che resta, veniva adoperato per l’indomani, anche in cucina, veniva conservato per il futuro. E quindi era un restare, come dire, mobile, in cui in realtà nulla si fermava, nulla era come prima, ma c’era un movimento, una mobilità delle dinamiche anche nelle persone che erano rimaste. E da qui, poi, a passare alla restanza come desiderio di vivere nei luoghi in cui si è nati, per scelta, a volte, per necessità in altre. E non di viverli passivamente, ma di renderli più abitabili, di cambiarli, di trasformarli, di farli diventare accoglienti, fino a sostenere che forse il viaggio più lungo in quel periodo, più spaesante, era compiuto proprio da quelli che erano rimasti, perché vedevano il mondo cambiare sotto i propri occhi e non si ritrovavano, e fino a dire anche che forse un atteggiamento culturale proficuo poteva essere di restare per sentirsi in esilio nel posto in cui si vive e si è nati, sentirsi un po’ sradicati all’opposizione dell’ordine esistente, questo proprio per incidere nel mutamento dei luoghi nella loro domesticità, nella loro abilità a diventare altri, pur restando lì.
Quindi è un concetto di restanza dinamico, attivo, propositivo, che non presuppone nessun localismo. Dal 2011-2012, quando uscì Pietre di pane, ovviamente l’attenzione andò più sul libro, in generale, che non sul termine. Poi lentamente i vari ambienti letterari, artistici, antropologici, si accorsero di questo termine, fino a che venne registrato nella sua novità, anche dall’Accademia della Crusca, anche dalla Treccani, venne adoperato da scrittori, da poeti, da artisti, e a quel punto, come dire, questo concetto esplodeva, nel senso che non era, come qualcuno mi disse, la scelta di un eroe isolato che vuole restare nel paese. Ma stava diventando, sia pure confusamente, un sentimento quasi collettivo, che accomunava sia quelli che erano rimasti, sia quelli che erano partiti.
E quando pubblicai La restanza con Einaudi nel 2022, oramai questo mi era molto chiaro, e devo dire una cosa che più, da un lato, mi ha stupito, dall’altro mi ha fatto piacere, è che il termine veniva assunto, non tanto da quelli che erano rimasti, ma soprattutto da quelli che erano partiti. E mi scrivevano delle lettere molto belle, dovrei raccoglierle, mi venivano chiesti anche consigli su che cosa conviene fare, restare, partire. In qualche modo la parola, che certo va sottoposta a una revisione critica, non va banalizzata, non deve diventare uno slogan, un modo di dire, era come se desse voce a sentimenti, ad emozioni, ad aspirazioni, a rimpianti, a nostalgie, sia dei partiti, sia dei rimasti. E come dire, questa parola veniva socializzata e nascono tantissimi gruppi che fanno riferimento alla restanza, tanti festival della restanza, i cammini della restanza, dove, a volte con ingenuità, a volte in maniera non del tutto consapevole, si afferma quasi l’esistenza di un movimento, tra virgolette, di un sentire comune che accomuna e spesso mette in relazione persone che si pongono il problema dell’abitare, del vivere in questi luoghi, specialmente nel vivere nelle aree interne che si stanno spopolando.

Per cui, se è vero che io, nell’adoperare il termine restanza, non mi riferivo a restare nel piccolo paese, perché uno resta e ha il problema dell’abitare, dello spaesamento, anche se vive a Parigi, anche se vive a Roma, anche se vive a Tokyo, come abbiamo visto nel bel film di Wenders, anche se vive nelle periferie. E questo diritto di restare viene affermato spesso in presenze di catastrofi. La gente da L’Aquila, dalle zone terremotate, non si sposta. E il Papa, oltre al diritto a migrare, afferma che ci deve essere un diritto a restare, mettere in condizioni tali concrete, pratiche, che chi non vuole partire non parta. In altri termini, ho visto che si andava verso una sorta di politicizzazione della restanza. C’è un ragionamento costruttivo per cambiare e modificare le cose collettivamente. Ora, indipendentemente da quello che pensiamo del termine, ma anche di questo fenomeno complesso dello spopolamento, è ovvio che se questi paesi continuano a parlare, ci sono delle cose che possono perdere i giovani che nel frattempo partono. Gli anziani muoiono, le case chiudono, le vie sono deserte, e con le linee, diciamo, di tendenza a livello demografico, e non solo, siamo portati verso situazioni in cui tra un decennio ci saranno interi paesi completamente spopolati, o altri paesi che si ridurranno a 200-300 abitanti.
Questo è un grande problema perché si crea una sorta di deserto, di desertificazione, soprattutto nel sud, ma con gravi danni anche nel nord. E quindi ci saranno problemi di tipo ecologico, ambientale, antropologico. I paesi vuoti non hanno più le dinamiche e l’antropologia dei paesi tradizionali, sono diventati qualcosa di nuovo, e non vuol dire che i paesi non debbano cambiare. Ma quando cambiano sotto la spinta di un esodo quasi biblico, resta il problema che il vuoto si trasforma in una sorta di vuoto mentale, di vuoto psicologico. Dicevo, la politica della restanza allora potrebbe essere che non voler vedere spopolati i paesi del sud, può costituire un nuovo modo di accostarsi al meridione o alla questione meridionale.
Quindi non c’è una retorica della restanza, non c’è una contrapposizione con la migrazione. Sono due aspetti delle grandi trasformazioni che si stanno verificando. Ma quello che uno cerca di dire, visto che molti giovani non vorrebbero partire, facciamone una questione “politica”. Facciamo in modo che restino in posti dove vengano create delle strutture, dei centri sociali, dove le strade siano percorribili, dove la sanità e la scuola siano un diritto. Quindi come dire, anche una rivendicazione di diritti, ma anche un’applicazione della costituzione per cui tutti i cittadini italiani dovrebbero essere uguali per le possibilità che vengono loro offerte. E questo non è vero, perché qui per esempio le scuole chiudono e altrove no. Non è vero perché le strade in alcuni posti ci sono, in altri no. Gli ospedali in area come la mia non funzionano, non esistono, e in altri no. E questo è importante dirlo, perché fare delle battaglie culturali prima che politiche, per i diritti, per l’ambiente, per avere cura del paesaggio, del territorio, dell’incolto, degli animali, dei prodotti, può significare creare anche dei posti di lavoro. Può significare dare ai giovani la possibilità per restare. Certo, se questi paesi che si stanno svuotando poi non hanno più i servizi, non hanno più un posto dove accogliere i giovani e che vogliono, dico per dire, prendere una birra o mangiare un panino, non hanno un posto più dove andare a curarsi, è chiaro che dobbiamo dire che in qualche modo vengono espulsi, vengono cacciati, e quasi c’è un involontario etnocidio che comporta la fine di culture, di mentalità, di comunità, di aggregazioni, che se dovevano, dovevano cambiare per scelte diciamo logiche, storiche, comprensibili, ma non attraverso un’eliminazione quasi fisica. Io dico, nella lunga durata l’immigrazione è diventata quasi come un’epidemia che provoca migliaia di morti, solo che per fortuna non ci sono i morti fisici, anche se molti muoiono sul lavoro, molti muoiono emigrando, molti non tornano più, però alla fine il dato di fatto è che abbiamo perso e continuiamo a perdere più abitanti di quanto non è avvenuto per esempio in zone di guerra, dico per dire, in zone critiche, e questo mi pare un elemento di riflessione insomma utile, non polemico, è inutile adesso andare a vedere dove sono le responsabilità che sono lontane, vicine, sono storiche, ma è importante vedere cosa adesso si può fare, con chi, perché, e anche se ancora si può fare qualcosa, perché se l’assunto è che oramai tutto è caduto, non si può fare niente, questa sorta di struttura dell’ormai, oramai questo è avvenuto e quindi è inutile muoversi, è inutile fare qualcosa, è chiaro che anche l’organizzazione, di una progettualità, di un fare, viene meno, se invece continuiamo a pensare anche con fatica, anche senza cadere in ingenuità ottimistiche, vedendo la situazione disperata che c’è, però se continuiamo a pensare che ci possa essere qualche speranza di mutamento, e allora ecco che forse possiamo ragionare sul tipo di intervento politico, culturale, sociale, che possiamo fare nei paesi, non per farli vivere così come erano, ma per farli vivere in maniera diversa dal passato.

Restare significa vivere l’esperienza dolorosa e autentica dell’essere sempre “fuori luogo”. Esiste lo sradicamento totale anche di colui che resta fermo.

Un grande tema è quello che lei definisce l’accanimento terapeutico che c’è nei confronti di alcuni paesi, nei confronti di alcuni luoghi abbandonati, che spesso nasce proprio da motivi di puro interesse, dove non c’è una progettualità di recuperare questi luoghi, di farli tornare vivi. D’altra parte evidenzia anche nel libro che c’è una certa vocazione all’eutanasia di alcuni paesi che invece potrebbero continuare a vivere in un certo modo. Volevo citare a proposito il recente lavoro di Domenico Cersosimo e Sabina Licursi, Lento Pede, che fa una ricerca approfondita sul territorio calabrese. Qui c’è un ragionamento su ciò che significa politicizzare la restanza: “Significa acquisire consapevolezza che la marginalizzazione dei territori è frutto di scelte politiche e che tutte le carenze, tutte le debolezze, tutte le criticità che ci sono si alimentano e cumulano vicendevolmente rendendo inefficaci interventi su una singola criticità”. Da questo punto di vista la consapevolezza di che cosa significa essere restanti ha dato sicuramente un supporto, un aiuto. Questo dibattito insomma è servito e sta servendo…

 

Secondo me è servito e serve molto. Sono totalmente d’accordo con la posizione di Cersosimo e di Licursi, con i quali peraltro abbiamo un rapporto di collaborazione e anche in alcuni volumi della collana Riabitare l’Italia della Donzelli abbiamo scritto sui margini, sulle periferie, e anche un libretto, Contro i borghi per i paesi. Una critica del modo improprio di chiamare il paese e di ridurlo a luogo mitico, quasi un Eden, quasi qualcosa di romantico, di neoestetizzante come implicitamente appare il borgo, che viene astoricizzato e decontestualizzato. Le analisi di Cersosimo e di Licursi, e degli altri che partecipano al libro, sono molto importanti perché assieme a pochi altri hanno alimentato questo dibattito.
In quel libro c’è anche un bel saggio, di Fulvio Librandi, che ragiona proprio sul fatto che spesso lo spopolamento viene alimentato, traduco liberamente, da un racconto che vede come inevitabile lo spopolamento. Per cui, le persone che stanno in un posto che comunque morirà, tendono a fare scelta di indifferenza, ad essere rassegnate. Mentre un racconto, e banalizzo, che ti pone di fronte ad un non ancora, dice Librandi, che non sai come sarà, e quindi, in quanto non accaduto, può essere costruito, e se alimenti quella che senz’altro può essere definita una linea di moderata speranza, ecco che speranza, conoscenza della situazione, responsabilità, individuazione del problema, coinvolgimento di altre persone, di enti, di artisti, di studiosi, può creare qualcosa di positivo anche nei paesi. D’altra parte, io volevo far notare una cosa che un po’ mi sorprende. Mentre chi si accosta al paese per piccoli interessi di bottega (diceva Corrado Alvaro che le classi dirigenti anche sulle catastrofi delle popolazioni hanno costruito le loro fortune, salvo mollare i paesi quando vedono che per il loro stato di degrado non possono essere oggetti di speculazioni, di grandi interessi) quello che mi sorprende è quanto lei faceva notare a proposito dell’eutanasia dei paesi. Ci sono anche osservatori, anche studiosi, che vanno nei paesi magari in maniera superficiale, che stanno poco, e che vedendo i paesani con un occhio urbanocentrico, scrivono che quasi quasi ti viene la voglia di portare la gente fuori dai paesi e di trasportarli in città. Cioè, siccome questo paese ha 100 abitanti, le linee di tendenza sono quelle che lo vogliono morto tra 5-10 anni, anziché intervenire perché questo non avvenga, si dice facciamolo morire prima, uccidiamolo prima, cacciamo gli abitanti. Io questo lo trovo molto cinico, anche perché io ho osservato paesi dove viveva anche un abitante che continuava a stare nel paese, a raccogliere oggetti, a fare un piccolo museo personale, come se dopo la sua morte qualcuno dovesse tornare. In qualche modo non pensava del tutto che quel paese sarebbe morto anche senza abitanti.
E quindi vedere che c’è chi, anziché combattere sempre contro la morte, comunque essa avvenga, e anche se siamo sicuri che avverrà, questo atteggiamento di eutanasia mi turba, mi infastidisce, almeno quanto l’altro atteggiamento di accanimento terapeutico. Cioè dire che paesi completamente abbandonati da 50 anni, oramai ridotti a rovine o a macerie, possono diventare luoghi di attrazione, di turismo, dove portare persone, questo non è assolutamente vero perché è una turisticizzazione dell’esotico e devo dire che mentre tra le rovine si potrebbero costruire punti di accoglienza, punti di arrivo o musei, centri di osservazione, però non è possibile riportare la vita o popolarli. Quindi questo in qualche modo è un atteggiamento di esotismo neoromantico che non condivido. D’altra parte, ristrutturare interamente un paese abbandonato avrebbe dei costi enormi e significherebbe portare turisti, forestieri, stranieri, persone che vanno a viverci per un mese, che non si conoscono tra di loro, che non si frequentano e quindi in qualche modo, cambia la location, ma quel paese recuperato secondo me sarebbe una specie di Club Mediterraneè, un villaggio turistico, ma non è più un paese, non è più una comunità.

Vito Teti ph. Vincenzo Marchese

Esiste questa idea per cui all’interno dei paesi non si può replicare un modello che non esiste più, che non aderisce più ai tempi che viviamo, ma va in qualche modo elaborato un nuovo modello di convivenza. Questo modello, che ovviamente non è un unicum, ma è un insieme di idee e di suggestioni, deve comunque combaciare con quello che è l’economia e il modo di vivere di oggi. Secondo lei è qualcosa che si può compiere solo attraverso la politica o ha bisogno anche di una nuova consapevolezza da parte di chi sceglie di vivere in questa dimensione che non è solo il paese, ma come scrive nel suo libro, è anche uno spazio terzo, una specie di terzo paesaggio, come lo descrive Clément. Quali sono secondo lei le caratteristiche che questo nuovo modello di convivenza dovrebbe avere?

Io penso che dei tentativi di convivenza nuovi sia tra locali, sia tra persone del luogo e persone che vengono da fuori ci sono, alcuni anche con buoni risultati. Io mi ricordo che quando venne nel mio paese qualche famiglia di colore, ovviamente per motivi vari, non penso a un proprio razzismo, ma comunque a una diffidenza nei confronti dello straniero, c’era questa distanza, questo tenere ai margini i forestieri, gli stranieri, e non si entrava in sintonia. Poi succede che qualcuno fa una squadra di calcio e che qualcuno si accorge che questi extracomunitari giocano a pallone. Si forma una squadra di locali ed extracomunitari, dopodiché questi ragazzi sono diventati amici, si frequentano, vanno assieme al bar, escono. Quindi è vero che c’è un problema di educare nella scuola, di invitare a conoscere l’altro, di sfrondare il pregiudizio. E in un altro paese che si chiama Conflenti c’è un gruppo di azione locale che fa arte, che fa cultura, che fa musica, che accoglie delle presenze straniere, gente universitaria di tutte le parti di Europa che viene lì per apprendere la tarantella, come si fa la pasta fatta in casa, ecc. È una bella storia perché nel giro di 10 anni si è costruito qualcosa di nuovo, ci sono scambi, molte persone hanno dato le loro case per ospitare questi ragazzi e molte persone, non sono numeri alti, stanno tornando. Quindi questo vuol dire che, pur essendo in presenza di modesti esempi e di esperienze limitate, però siamo nello stesso in presenza del fatto che ci dice che qualcosa si può fare, si deve fare, bisogna trovare i linguaggi giusti, i rapporti giusti, gli interventi adeguati, come era avvenuto durante la prima fase dell’arrivo dei migranti dall’est, queste donne che hanno risolto il problema degli anziani da curare e da guardare nei paesi, e lentamente sono diventate, non tantissime, ma in ogni paese 10-15 famiglie che vivono nella comunità e che non vogliono più andare via. Ora io penso che in un paese che si spopola l’arrivo di 20 famiglie, l’arrivo di 10 famiglie di extracomunitari non è una cosa da nulla, anche perché ti dà un senso di novità, la possibilità di nuovi rapporti, di nuovi scambi, non la vecchia comunità, di rapporti che devi inventare, che in qualche modo incoraggiano ed aiutano anche a restare o a cercare nuove vie. Quindi queste forme di restanza, convivenza, creazione della comunità, secondo me hanno anche un loro fascino, hanno una loro bellezza, perché ti ritrovi le cose che non avresti minimamente pensato, i matrimoni tra persone di colore diverso, il genitore della ragazza che in astratto non avrebbe mai accettato che la figlia sposasse qualche forestiero, e che invece adesso beve il bicchiere di vino, con uno straniero che gli racconta come si vive nel suo paese. Voglio dire, c’è un’identità che si modifica, che cambia, ci sono delle forme di aggregazione nuove, anche di diritti nuovi. Per esempio nei banchetti, ricordo che a Badolato le persone si sono incontrate perché hanno scoperto che gli abitanti di Badolato, i curdi, amavano il peperoncino, quindi anche la cucina potrebbe diventare un elemento di dialogo. Insomma, è una bella scommessa e bisogna insistere con fantasia, con apertura e con la consapevolezza che senza novità, senza nuovi rapporti, senza nuove presenze, questi paesi moriranno. E allora ben venga il nuovo, ben venga anche l’ignoto, ben venga anche la scommessa rispetto alla morte. È come se uno dice: tanto tu sei destinato a morire, io sperimento questa medicina nuova, può essere che vada o che non vada, ma intanto cerco di fare qualcosa. 

In copertina: Vista panoramica di Pennadomo (Chieti) © Archivio Benandanti

Vito Teti

Già ordinario di Antropologia culturale presso l’Università della Calabria, si occupa attualmente di antropologia e letteratura dei luoghi. Tra i suoi libri piú recenti ricordiamo: Maledetto Sud (Einaudi, 2013); Fine pasto. Il cibo che verrà (Einaudi, 2015); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea (Meltemi, 2019); Prevedere l’imprevedibile. Presente, passato e futuro in tempo di coronavirus (Donzelli, 2020); Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente (Marietti, 2020) e La restanza (Einaudi, 2022). Presso Quodlibet ha pubblicato Il Patriota e la maestra. La misconosciuta storia d’amore e ribellione di Antonio Garcèa e Giovanna Bertòla ai tempi del Risorgimento (2012) e Pietre di pane. Un’antropologia del restare (2012, 2014, 2024).