Ragionare su come sono fatte le cose, andare alla ricerca del dato artigianale. La letteratura dei nostri giorni raccontata da uno dei suoi più credibili testimoni, Emanuele Trevi, un intellettuale che annoda le vite degli amici intrecciandole con quelle di celebri personalità della storia: quando il passato torna a rivivere, colora di nuova luce il presente sbiadito.
Fin dai primi romanzi, lei dimostra una consapevolezza del mezzo letterario che forse pochi hanno avuto. Secondo lei, è un bene o un male? È cambiato lo statuto dello scrittore, che oggi è anche un filosofo, un critico, un sociologo?
È una domanda che mi sono sempre fatto, dandomi risposte diverse nel corso della vita. Io personalmente ho sempre avuto la vocazione del critico, la mia prima recensione l’ho scritta a dodici anni nel giornalino della scuola, è una cosa che mi piace molto, ogni anno ancora oggi scrivo una trentina di articoli per il giornale e un po’ di saggi. Quindi certo, io sono molto consapevole, perché di natura mi piace smontare i giocattoli, ragionare su come sono fatti, andare in cerca del dato puramente artigianale. Anche se vado a vedere un film, o ascolto un pezzo di musica, penso sempre – come l’avrei fatto io?
Un’altra sua caratteristica è costituita dalla capacità di elaborare il mistero umano elevandolo a mito universale, a condizione generale dell’esistente. Insomma, il fato, l’oltranza, l’alterità sono aspetti che possono coinvolgere l’anima del mondo, l’afflato che percorre ogni elemento…
Non ci avevo mai pensato in questi termini, ma è una prospettiva che mi piace molto. La punta più raffinata della nostra percezione del mondo consiste nel cogliere le analogie, le somiglianze che legano tra loro tutte le manifestazioni dell’essere.
I suoi personaggi sono persone, le sue persone assurgono a figure emblematiche di una condivisione degli affetti che appare più letteraria che reale. La letteratura è finzione così come il reale, anzi, interrelandosi sono finzione della finzione.
Non saprei, io parto sempre da una base di esperienza vissuta, i ritocchi sono molto lievi. Poi certo interviene la cura formale, sia della singola pagina che del libro nel suo complesso, per cui alla fine non c’è molta differenza tra la mia pretesa di realismo e un romanzo di fantascienza.
Lei ha colpito la mia sensibilità fin dal suo primo libro, la cui lettura mi fu consigliata dalla moglie di Alberto Cappi. I cani del nulla sono un gioco di frammenti, il tentativo di riconciliare non solo le antitesi presenti nella società occidentale, ma anche le ambivalente. Fin dal primo libro, la sua si rivela una letteratura per iniziati.
Sì, può essere, ma non è un’iniziazione molto complicata, si arriva a capire tutto in tanti modi. I lettori capiscono molte più cose di quello che ci si immagina. Certo, ti deve piacere la letteratura, e l’uso di un certo codice allusivo. In fondo il modello narrativo prevalente in quel libro è quello delle commedie casalinghe tipo Friends e soprattutto I Simpson.

Il libro della gioia perpetua è un libro bellissimo, che gioca sul manoscritto ritrovato; un cliché della letteratura. La fantasia ha bisogno di cliché per sciogliere le briglie, oppure ha bisogno di uno schema per romperne e ricostruirne le mura? La letteratura è un paradigma che offre indefinite variazioni?
Sì, di manoscritti ritrovati è piena la letteratura, mi piace moltissimo per esempio il modo in cui Henry James fa entrare il racconto della governante nel Giro di vite. Anche Umberto Eco nel Nome della rosa è convincente. Il problema non è riattivare un luogo comune, il problema è quello che vuoi farci tu. Un errore che intendo correggere in una prossima edizione nel Libro della gioia perpetua è l’aver riprodotto integralmente il manoscritto della bambina, dovevo far apparire solo una pagina al momento giusto. Fu Angelo Guglielmi a osservarlo in una recensione, e aveva ragione, ci vedeva un indebolimento di tutto il resto. Non si finisce mai di imparare in queste cose.
Il suo capolavoro è Sogni e favole, un libro che riprende, l’uno dopo l’altro, tutti i fili lasciati a terra per tesserli in un unico nodo; obiettivo vero dell’arte del ricamo non è il tappeto, ma è suo disfarlo lasciandolo apparire. Il nodo è l’unica veste di cui possiamo veramente abbigliarci…
Immagino i miei libri in effetti come un annodare cose differenti, cercando di farle partecipare alla stessa forma. Non mi piacciono i libri troppo slegati, e d’altra parte mi piacciono i passaggi tra vari registri letterari. Mi piace immaginare i miei libri come una pluralità di strade che si intersecano e arrivano alla stessa meta nell’ultima pagina. Una grande fatica!
Si ritiene legato alla tradizione letteraria? Oggi che non si leggono più i testi della classicità, che uno scrittore non legge opere che vanno al di là del Novecento, può considerarsi uno scrittore?
Beh, c’è tanta gente che legge Cechov, o Shakespeare, per quello che voglio fare io sento che c’è ancora la risposta dei lettori. Quello che mi fa sentire veramente messo ai margini semmai è l’orrore del politically correct. Io non sono uno scrittore particolarmente scandaloso, ma in America e in Inghilterra avrei serie difficoltà, e la Francia sta soccombendo alla barbarie.
Quali libri sta leggendo attualmente? Quale libro rileggerebbe con piacere? Quali sono i filosofi che predilige?
In questo preciso momento sto leggendo un bellissimo classico della letteratura vittoriana, Tess dei D’Urbeville di Thomas Hardy. Da ragazzo ero rimasto molto colpito dall’ultimo romanzo di Hardy, Giuda l’oscuro. Nella tecnica narrativa di Hardy c’è qualcosa di implacabile, un vero senso del destino, che impressiona. Non c’è un fatto tanto piccolo da non poter produrre immani conseguenze. Non so quale libro amerei rileggere perché con il lavoro che faccio leggo quello che mi serve leggere. Ma voglio assolutamente rileggere Proust da capo a fondo, l’ho molto letto nella vita ma sempre a pezzi. Conosco pochissimo la filosofia, adoro Cioran ma so che i filosofi “di professione” storcono un po’ il naso.

Emanuele Trevi
Nato a Roma nel 1964. Collabora al Corriere della Sera e al Manifesto. Tra le sue opere: I cani del nulla (Einaudi, 2003), Senza verso. Un’estate a Roma (Laterza, 2004), Il libro della gioia perpetua (Rizzoli, 2010), Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie, 2012), Il popolo di legno (Einaudi, 2015), Sogni e favole (Ponte alle Grazie, 2019), Due vite (2020).