Scrive Claude Lévi-Strauss nel suo Tristi tropici: “Mi domando a volte oggi se l’etnologia non mi abbia chiamato, senza che me ne rendessi conto, per l’affinità esistente fra la struttura delle civiltà che essa studia e quella del mio pensiero. Mi mancano le doti per conservare saggiamente in cultura campi di interessi in cui, un anno dopo l’altro, avrei raccolto i frutti: ho un’intelligenza neolitica. Come i fuochi della boscaglia indigena, essa brucia distese a volte inesplorate; le feconda, forse, per ricavarne qualche rapido raccolto, lasciandosi dietro un territorio devastato.”
L’esperienza etnografica di Lévi-Strauss (Tristi Tropici viene pubblicato per la prima volta nel 1955) pone al centro la presunta superiorità della cultura occidentale rispetto a quella indigena, ma mette soprattutto in discussione sé stesso e il suo ruolo. Ripensavo alle parole del grande antropologo francese durante la lettura di Stupore indigeno (Mar dei Sargassi) dell’antropologo Massimo Canevacci, un libro che dichiara già dalle prime pagine la sua “indisciplina metodologica”, stabilendo come metodo di narrazione un ibrido tra l’analisi etnografica e il racconto poetico.
Questo libro cerca di offrire un tipo di scrittura oltre la classica metodologia della disciplina (antropologia culturale), anzi professa e pratica una indisciplina metodologica basata sulla spontaneità e lo stupore. Vorrei che il mio parlare orale si intrecciasse con la scrittura digitale per sperimentare un diverso stile narrativo potenzialmente ibrido.
Massimo Canevacci
L’esperienza in Brasile di Canevacci inizia nel 1984, con una ricerca di antropologia urbana a San Paolo, da cui nascerà più tardi il saggio La città polifonica. Nel ’92 (cinquecento anni dopo la “scoperta”) viene invitato in una aldeia, un villaggio del popolo Xavantes nel Mato Grosso, dove da subito si rende conto che ogni “tassonomia per classificare l’altro era insufficiente e spesso errata”.
Qui inizia lo studio delle popolazioni native del Brasile: Xavantes, Bororo, Krahò, negli anni successivi anche gli Yanomami, vere e proprie “nazioni senza stato”, che diventano il fulcro del suo lavoro di ricerca, su cui interrogarsi in una questione cruciale: chi ha il diritto di rappresentare l’altro e chi l’obbligo di essere rappresentato?
In questo passaggio ad esempio è cruciale l’incontro con un giovane Xavante videomaker, Divino, che dimostra ancora una volta la debolezza delle categorie eurocentriche e la capacità dei nativi di una potente autorappresentazione.
Scrive ancora Canevacci: “Non si affronta però, la questione decisiva: queste popolazioni non vivono in musei o parchi tematici per commuovere il turista umanista o il religioso caritatevole, non hanno mai vissuto fuori dalla Storia né prima né dopo la scoperta di Colombo. Esse da sempre fanno parte della storia umana, sia di quella generale sia della loro parziale che, come si dovrebbe sapere, non coincide con quella universale. Anzi, quando accade, avvengono le cose più catastrofiche: quella conquista che ancora sanguina e che un grande scrittore uruguaiano (Eduardo Galeano) ha definito le vene aperte dell’America Latina. Questa storia minuscola è grande, è marginale e centrale, è lontana e vicinissima”.

In copertina: Massimo Canevacci © Benandanti

Massimo Canevacci
Docente di antropologia culturale presso l’Università di Roma La Sapienza. Invitato come visiting professor in diverse università europee, a Tokyo (Giappone) e a Nanjing (Cina), dal 2010 al 2017 è stato professore ospite a Florianôpolis (UFSC), Rio de Janeiro (UERJ), Sao Paulo (ECA/USP). Attualmente insegna come professore emerito a La Sapienza.
Tra i suoi libri Meta-feticismo. Un’etnografia esplorativa oltre la reificazione (Manifesto Libri, 2022); Culture eXtreme. Mutazioni giovanili nel corpo della metropoli (Derive & approdi, 2021); La città polifonica (Rogas,2018); Antropologia della comunicazione visuale (Postmedia Books); La linea di polvere. La cultura bororo tra tradizione, mutamento e auto-rappresentazione (Meltemi, 2017).